Fusioni, scissioni e trasformazioni nel nuovo concordato preventivo

Pubblicato in Il Fallimento
il luglio 2019

di Pier Giorgio Cecchini

01 luglio 2019
Fusioni, scissioni e trasformazioni nel nuovo concordato preventivo

 

L’Art. 116 del Codice della Crisi e dell’Insolvenza introduce l’auspicato raccordo tra le norme di diritto societario e di diritto delle procedure concorsuali in tema di operazioni straordinarie attuate in pendenza di procedura di concordato o nella sua fase esecutiva. Viene confermata la spettanza di un diritto individuale dei creditori di opporsi a tali operazioni, ma attraverso un unico modello processuale che accorpa la trattazione delle opposizioni societarie all’interno del giudizio di omologazione, assicurando speditezza di esecuzione e stabilità degli effetti di fusioni, scissioni e trasformazioni eterogenee.

La nuova disciplina presenta tuttavia alcuni problemi applicativi in caso di operazioni attuate agli esordi della procedura e nella fase esecutiva, che vengono analizzati tentando di darvi pragmaticamente soluzione, pur nell’auspicio che la norma sia oggetto del prossimo intervento correttivo.

Il contributo analizza infine alcune questioni controverse che emergono nella pratica di tali operazioni, ad esempio in caso di operazioni straordinarie condizionate, di esercizio del diritto di recesso del socio, di fusioni fra garante e garantito, di fusioni e scissioni “realmente” negative.”

 

Premessa

Le fusioni e scissioni si sono rapidamente affermate quali strumenti per l’attuazione di piani concordatari.

La fusione può ad esempio consentire di collocare tramite una vendita unitaria, e dunque a migliori condizioni, gli attivi di società appartenenti al medesimo gruppo in crisi, oppure di far pervenire ad una società in concordato beni immobili da liquidare per ottenere nuova finanza in esenzione di imposta, non essendo tassati né il primo “passaggio” di beni tramite fusione (art. 172, comma 1, T.U.I.R.) né la successiva cessione (art. 86, comma 5, T.U.I.R.). La fusione può anche essere impiegata per il meno commendevole scopo di estinguere per confusione crediti e debiti infragruppo di dubbia legittimità, ad esempio perché derivanti da finanziamenti a favore di società del gruppo non solvibili.

La scissione può invece essere utilizzata per diversificare i rischi d’impresa nella continuità diretta, ad esempio separando l’attività aziendale da quella immobiliare, oppure per disgiungere l’attività in continuità da quella liquidatoria.

Il legislatore ha preso atto dell’utilità di tali operazioni introducendo una speciale disciplina all’art. 116 del D.Lgs. n. 14/2019 (il Codice della Crisi e dell’Insolvenza, o “Codice”) volta ad assicurarne sia la speditezza di esecuzione che la stabilità degli effetti.

La riforma ha interessato non soltanto le fusioni e scissioni ma anche le trasformazioni, e il riferimento, per quanto non esplicitato, è alle trasformazioni eterogenee, trattandosi dell’unica ipotesi in cui spetta ai creditori il diritto di opposizione ex art. 2500 novies c.c., il quale è invece escluso nelle altre ipotesi di trasformazione regolate dal codice civile (così P.P. Ferraro, La tutela dei creditori nella trasformazione eterogenea, in Notariato, 5/2011).

La trasformazione eterogenea è tuttavia destinata ad un uso sporadico nel concordato, in particolare quando abbia l’effetto di aggiungere alla responsabilità dell’ente quella di coloro che hanno agito in suo nome e per suo conto, come nel caso di trasformazione da società di capitali ad associazione non riconosciuta (cfr. art. 38 c.c.).

La riforma non ha invece interessato l’opposizione che i creditori sociali possono esercitare contro la decisione di revoca dello stato di liquidazione (art. 2487 ter c.c.); resterà quindi difficoltoso, per le società affrettatamente poste in liquidazione e che successivamente intendano optare per un concordato in continuità, proseguire dopo l’omologazione la gestione caratteristica, dato l’obbligo di gestione conservativa ex art. 2486 c.c.

L’analisi della nuova disciplina qui svolta costituisce anche un’occasione per approfondire alcune questioni controverse che emergono nella pratica di tali operazioni. Per agilità di lettura, nell’indicare le norme di legge si ometterà il riferimento al Codice quando il contesto lo consenta.

 

Le diverse finalità dell’opposizione societaria e concorsuale

Il principale ostacolo alla realizzazione delle operazioni straordinarie nell’ambito del concordato preventivo è rappresentato dal potere di opposizione “societaria” di cui godono i creditori, tale per cui anche uno solo di essi può paralizzare l’operazione ed il piano concordatario di cui ne costituisca il fulcro.

Tale diritto di opposizione è disciplinato dagli artt. 2503 c.c. in caso di fusione, 2506 ter (che richiama l’art. 2503) in caso di scissione e 2500 novies per la trasformazione eterogenea.

L’opposizione societaria rientra nella più ampia categoria dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c. (Trib. Napoli 19 febbraio 2016) ed è volta ad ottenere la sospensione dell’efficacia della decisione dei soci (o, ricorrendone i presupposti, degli amministratori) nell’attesa di un giudizio di merito, con lo scopo:

– nel caso di fusioni e scissioni, di evitare che la garanzia a favore dei creditori rappresentata dal patrimonio della società debitrice subisca una menomazione (Cass. 18 gennaio 2018, n. 1181);

– nel caso di trasformazione eterogenea, di impedire l’approdo ad un tipo sociale contraddistinto da una disciplina giuridica di tutela patrimoniale dei creditori più attenuata (P. Bastia – R. Brogi, Operazioni societarie straordinarie e crisi d’impresa, 2016, Milano, collana Insolvency, cap. 6.1).

In ogni caso, l’opposizione societaria ha unicamente lo scopo di contestare la lesione della garanzia patrimoniale, “non avendo i creditori diritto di opporsi per altre ragioni ad una decisione di fusione” (Trib. Milano 19 agosto 2015); non è invece volta, l’opposizione societaria, a garantire un generico rispetto del principio di intangibilità della sfera giuridica altrui.

L’opposizione “concorsuale” ha viceversa lo scopo di contestare la legittimità della proposta concordataria, nonché di sindacarne la convenienza da parte dei creditori qualificati.

Si è affacciata in dottrina la tesi, avvallata dal Consiglio Nazionale del Notariato, secondo la quale il diritto di opposizione societaria deve essere negato nel concordato preventivo, in quanto assorbito dal diritto di opposizione concorsuale; tuttavia questa opinione non è stata condivisa né da altra dottrina (D. Galletti, Le fusioni concordatarie ed il matrimonio fra diritto societario e diritto concorsuale: separati in casa?, in ilfallimentarista.it, 14 luglio 2014), né dalla giurisprudenza (Trib. Prato 22 luglio 2014 e Trib. Ravenna 29 ottobre 2015) e neppure nella prassi, se si considera che, da un sondaggio condotto nel 2016 dall’Osservatorio sulle Crisi di Impresa (www.osservatorio-oci.org), è risultato che il 71,3% dei giudici delegati interpellati ha escluso di aderire a tale tesi.

Ora l’art. 116, comma 1 del Codice provvede a disciplinare la materia stabilendo che “se il piano prevede il compimento, durante la procedura oppure dopo la sua omologazione, di operazioni di trasformazione, fusione o scissione della società debitrice, la validità di queste può essere contestata dai creditori solo con l’opposizione all’omologazione”.

Pertanto, si riconosce al creditore di società in concordato il diritto di contestare la lesione della garanzia patrimoniale determinata da un’operazione straordinaria; tuttavia questa azione confluisce nell’unico contesto processuale dell’opposizione concorsuale. Ciò consente di assicurare la speditezza di trattazione delle opposizioni societarie da parte del tribunale concorsuale, che è già investito dell’esame dell’ammissibilità giuridica della proposta e della fattibilità economica del piano, di cui l’operazione straordinaria è parte integrante, e che dispone a tali fini di un ampio corredo informativo.

Nel prosieguo il modello processuale verrà definito di “opposizione unitaria”.

 

Le tutele alternative del creditore

È qui opportuna una breve disamina delle difese azionabili sia in ambito concorsuale che civilistico da parte del creditore il quale veda il soddisfacimento del proprio credito messo a repentaglio da un’operazione straordinaria; se si considera infatti che, in caso di opposizione, l’oggetto di valutazione da parte del tribunale è il rischio di lesione patrimoniale indotto dall’operazione stessa, è evidente che tale rischio può essere trascurabile, e quindi si possa omologare la proposta concordataria e la sottesa operazione, ogni qual volta il credito trovi adeguata protezione alternativa.

Il creditore gode in ambito concordatario dei seguenti diritti, fruibili in diversa misura a seconda della natura del credito e dell’epoca di sua formazione:

– diritto di voto;

– diritto di opposizione all’omologazione e, per i creditori qualificati, connessa attivazione del controllo di convenienza;

– privilegio o prededuzione.

Inoltre il creditore gode delle ordinarie tutele civilistiche; in particolare della tutela preventiva di impugnazione delle decisioni dei soci per nullità e delle tutele successive di risarcimento dei danni nonché, per la sola scissione, della responsabilità sussidiaria delle diverse società coinvolte.

Quanto al primo rimedio, al creditore, come a chiunque vi abbia interesse, spetta il diritto di impugnare per nullità la decisione dei soci di attuare l’operazione straordinaria (così per la scissione Cass. 20 dicembre 2005, n. 28242); nullità che, con la riforma, si arricchisce di una nuova ipotesi di illiceità dell’oggetto per violazione di norma imperativa qualora si attribuisca tale natura all’art. 4, comma 2, lett. c) del Codice, il quale impone al debitore di “gestire il patrimonio o l’impresa durante la procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza nell’interesse prioritario dei creditori”, e l’operazione straordinaria lo metta a repentaglio, quell’interesse.

L’impugnazione non è limitata alla sola nullità ma anche alla giuridica inesistenza, se ancora invocabile dopo la riforma del diritto societario (così, seppure dubitativamente, in un caso di fusione Cass. 1° giugno 2012, n. 8864).

Sebbene gli artt. 2379 e 2479 ter c.c. concedano tre anni di tempo per esercitare l’impugnazione per nullità di una decisione dei soci, quando abbia ad oggetto un’operazione straordinaria essa deve essere esercitata in tempi molto più ristretti, e cioè prima che l’operazione diventi irretrattabile per il decorso del termine di opposizione dei creditori. E poiché l’impugnazione non impedisce di stipulare l’atto di fusione o scissione (App. Milano 18 gennaio 2002) è ulteriormente necessario richiedere tempestivamente al tribunale di sospendere l’esecuzione della decisione dei soci ex art. 2378 c.c.

Tale provvedimento cautelare può essere concesso anche quando l’esecuzione dell’operazione sia già sospesa per la pendenza dell’opposizione di creditori (Trib. Roma 26 maggio 2009), e presenta l’indubitabile vantaggio per l’attore di esplicare i suoi effetti fino alla sentenza di merito; gli effetti inibitori dell’opposizione dei creditori possono invece essere rapidamente rimossi oggi ex art. 2445, comma 4, c.c. (richiamato dall’art. 2503) e domani in conseguenza dell’omologazione.

Seconda tutela a favore del creditore è il diritto al risarcimento del danno eventualmente causato dalla trasformazione, fusione e scissione, ai sensi rispettivamente degli artt. 2500 bis, comma 2, 2504 quater, comma 2, e 2506 ter, comma 5 c.c., la cui vigenza per le società in concordato è confermata dall’art. 116, comma 3 del Codice.

Infine, in caso di scissione il creditore ha diritto di agire contro tutte le società che vi abbiano partecipato, e il diritto è esercitabile tanto da chi abbia inutilmente promosso opposizione, quanto da chi non l’abbia promossa (App. Milano 28 luglio 2017).

Si tratta certamente di una responsabilità solo sussidiaria e che può essere fatta valere solo nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ricevuto; tuttavia essa è agevolmente esercitabile, in quanto non richiede la preventiva escussione della debitrice principale bensì soltanto la semplice costituzione in mora della debitrice solidale (Cass. 7 marzo 2016, n. 4455) e non è circoscritta al valore effettivo del patrimonio netto indicato dagli amministratori nella relazione ex art. 2506 ter, comma 2, c.c. (o secondo dottrina, quando la relazione manchi, nel progetto di scissione), non essendo tale valore opponibile ai creditori, i quali possono contestarlo chiedendone una quantificazione giudiziale (Trib. Milano 23 aprile 2015).

Qualora poi si tratti di debiti tributari, la responsabilità delle beneficiarie e della scissa è non soltanto solidale, ma anche illimitata, ai sensi dell’art. 173, comma 13, D.P.R. n. 917/1986, e dell’art. 15, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997, (l’orientamento è stato recentemente confermato dalla Corte cost. 26 aprile 2018, n. 90).

L’elencazione che precede costituisce una sorta di decalogo per il creditore particolarmente agguerrito, ma, come precisato all’inizio del presente capitolo, induce anche a ritenere che il tribunale concorsuale investito di un’opposizione, nell’esprimersi sulla controversia possa e debba tenere conto delle tutele alternative spettanti all’opponente.

Il controllo di legittimità dell’operazione straordinaria non si esaurisce in sede di omologazione ma è esercitato anche nella fase precedente dell’ammissione.

Così la giurisprudenza ha ritenuto inammissibili per carenza di fattibilità giuridica le domande di concordato fondate su scissioni da attuare con modalità tali da escludere una società dall’attribuzione di qualunque passività, sì da permetterne l’esdebitazione in violazione dell’art. 2740 c.c. (App. Firenze 8 Marzo 2016 e Trib. Ravenna 29 ottobre 2015); occorre tuttavia osservare che una vera e propria esdebitazione non può realizzarsi, considerata la responsabilità di ogni società ex art. 2506 quater, comma 3, c.c. per i debiti attribuiti alle altre società in conseguenza della scissione.

Parimenti è stata ritenuta elusiva delle disposizioni in tema di offerte concorrenti, e quindi inammissibile, la domanda di concordato basata su una scissione con assegnazione di un’azienda a favore di una beneficiaria preesistente in bonis, seppure la incorporante fosse partecipata dalla stessa compagine sociale della scissa e riconoscesse a favore dei creditori concordatari una contropartita economica per l’assegnazione dell’azienda (Trib. Catania 14 luglio 2016).

 

Le operazioni agevolate

La nuova disciplina preclude l’esercizio autonomo dell’opposizione societaria sia per le operazioni straordinarie effettuate in corso di procedura che per quelle effettuate successivamente all’omologazione. L’articolato opera qui una forzatura rispetto alla legge delega, la quale limitava il regime speciale alle sole operazioni compiute in corso di procedura; forzatura giustificata, secondo la relazione illustrativa, dall’assumere il termine “procedura” in questo contesto un significato dilatato fino a ricomprendere anche la fase post omologazione, ma che ha sollevato dubbi di eccesso di delega in seno alla Commissione Giustizia del Senato.

Ovviamente le operazioni attuate in corso di procedura dovranno essere autorizzate preventivamente ex art. 46, comma 1 o ex art. 94, comma 3 a seconda della fase in cui si trova la procedura.

Le operazioni straordinarie da attuarsi dopo l’omologazione potranno essere liberamente effettuate se previste nel piano; qualora viceversa non siano previste nel piano e mettano a rischio l’adempimento della proposta concordataria, pare ragionevole ritenere che il giudice delegato possa impedirle quali atti non programmati e pregiudizievoli, attribuendo al commissario giudiziale i relativi poteri, sulla base dell’interpretazione estensiva dell’art. 118, comma 4.

In forza dell’inciso “Se il piano prevede il compimento …”, beneficiano dell’opposizione unitaria unicamente le operazioni straordinarie previste nel piano, mentre per quelle avulse dal piano il creditore mantiene l’ordinario diritto di opposizione societaria.

L’art. 116 non distingue fra operazioni straordinarie funzionali alla realizzazione del piano e operazioni volte a soddisfare gli interessi personali dei soci, come è ad esempio il caso di una scissione asimmetrica di una holding pluripersonale in diverse holding unipersonali. Nel silenzio della norma, quando i piani che le contengono superino il vaglio di ammissibilità giuridica e fattibilità economica, anche tali operazioni straordinarie risulteranno automaticamente attratte alla nuova disciplina.

 

Pubblicità degli atti

L’art. 2503 c.c. prevede che ciascun creditore anteriore all’iscrizione del progetto di fusione o scissione nel registro delle imprese o alla sua pubblicazione sul sito internet della società ex art. 2501 ter c.c. possa opporsi all’operazione entro sessanta giorni dall’ultima iscrizione delle decisioni di approvazione del relativo progetto effettuate ai sensi dell’art. 2502 bis c.c.

Il termine è ridotto a trenta giorni ex art. 2505 quater c.c. nel caso di fusione cui partecipino società non azionarie (ma non nel caso di scissione, mancando un richiamo all’art. 2505 quater da parte dell’art. 2506 ter c.c.; si veda Trib. Bologna 14 dicembre 2016) e a quindici giorni quando a prendere parte ad una fusione o scissione sia una banca (art. 57, comma 3, T.U.B.).

L’art. 2500 novies c.c. prevede invece che ciascun creditore possa opporsi alla trasformazione eterogenea entro sessanta giorni dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari previsti rispettivamente per il tipo sociale adottato e per il tipo sociale che cessa; non è normativamente indicato a quali creditori spetti il diritto di opposizione, ma è istintivo pensare solo a coloro che risultino tali nello stesso momento in cui viene curata la pubblicità dell’operazione nel registro di riferimento dell’ente trasformando (così P. Criscuoli – M. Ciarleglio, Pubblicità nel registro delle imprese: la trasformazione eterogenea e i poteri di controllo del giudice del registro, in Notariato, n. 6/2014).

Dunque il diritto di opposizione societaria è ordinariamente riservato ai soli titolari di crediti esistenti prima che l’operazione straordinaria diventi legalmente conoscibile, e che quindi abbiano concesso credito non consapevoli di esporlo ai repentagli della diluizione del patrimonio sociale o dell’adozione di un tipo sociale meno tutelante; non spetta, invece, ai creditori successivi, che quindi abbiano scelto di affidare la società pur conoscendo, o potendo conoscere, dell’operazione.

Questi sono gli adempimenti pubblicitari ed i termini di opposizione dei creditori di società in bonis. L’art. 116, comma 2 ha introdotto l’ulteriore l’obbligo di pubblicare il piano nel registro delle imprese almeno trenta giorni prima dell’udienza di omologazione ogniqualvolta esso preveda il compimento di un’operazione straordinaria; pubblicazione che dovrà essere accompagnata da opportune cautele in modo da mascherare gli elementi sensibili del piano (ad esempio il nome dei clienti), pur avendo cura di non snaturare il contenuto informativo del documento e garantendone in ogni caso la totale disclosure agli organi della procedura.

La pubblicazione del piano ha finalità parzialmente diverse dalle formalità civilistiche ordinarie precedentemente elencate e quindi non comporta la soppressione di queste ultime. Devono parimenti essere salvaguardati anche gli altri adempimenti che precedono le decisioni di fusione e scissione, regolati rispettivamente dagli artt. 2501 septies e 2506 ter c.c. (deposito presso la società del progetto di fusione e scissione, dei bilanci degli ultimi tre esercizi etc.), i quali sono posti nell’esclusivo interesse dei soci (Cass., Sez. trib., 11 febbraio 2013, n. 3193).

Argomento collaterale alla pubblicità degli atti è l’acquisizione del certificato di mancata opposizione dei creditori all’omologazione, che consente di dare libera attuazione alla fusione o scissione e che oggi è rilasciato dalla cancelleria del tribunale delle imprese previa interrogazione dei ruoli del contenzioso civile e, occorrendo, della volontaria giurisdizione (sebbene la giurisprudenza neghi che in caso di opposizione, la quale ha natura cautelare ed anticipatoria, trovi applicazione il rito camerale della volontaria giurisdizione; così Corte app. Genova 4 febbraio 2010. Sulla natura cautelare dell’opposizione Trib. Milano 14 novembre 2011).

Con l’avvento della riforma potrà accadere che nulla osti a stipulare l’atto di una fusione o scissione attuata agli esordi della procedura, non constando opposizioni nei sessanta, trenta o quindici giorni, e che ciononostante il certificato non sia acquisibile in tempo utile, ad esempio perché non sia ancora trascorso il termine finale per proporre l’opposizione unitaria oppure perché tale ultimo termine sia trascorso ma pendano opposizioni di natura strettamente concorsuale, tali comunque da impedire alla cancelleria di rilasciare il certificato.

Ebbene, in tali casi il notaio potrà – e forse dovrà, stante l’art. 27 della legge notarile – dare comunque corso alla stipulazione dell’atto, facendo affidamento sulla sola dichiarazione di assenza di opposizioni resa dal legale rappresentante, come già oggi avviene di prassi.

 

I tempi dell’opposizione: inquadramento

Opposizione civilistica e concorsuale presentano finestre temporali di esercizio diverse. Infatti:

  1. l’opposizione civilistica è esercitabile nel periodo compreso tra i seguenti momenti:

1.1. termine iniziale:

– ultima delle iscrizioni nel registro imprese delle decisioni dei soci di fusione, scissione o trasformazione previste dagli artt. 2502 bis e 2500 novies c.c., oppure

– se antecedente, pubblicazione del piano;

1.2. termine finale: sessanta, trenta o quindici giorni dopo il termine iniziale;

  1. l’opposizione concorsuale è esercitabile nel periodo, comunque non inferiore a venti giorni, compreso fra i seguenti momenti:

2.1. termine iniziale:

– per il creditore dissenziente, notifica del provvedimento del tribunale di fissazione dell’udienza di omologazione;

– per chiunque altro vi abbia interesse, pubblicazione del medesimo provvedimento sul registro delle imprese;

2.2. termine finale: dieci giorni prima dell’udienza di omologazione.

Il termine di venti giorni di cui sopra è dato dalla differenza tra i trenta giorni minimi di pubblicazione del piano prima dell’udienza di omologazione ex art. 116, comma 2 ed i dieci giorni per costituirsi in opposizione prima della medesima udienza previsti dall’art. 48, comma 2.

Quando vi sia una seppur parziale sovrapposizione fra le finestre temporali di esercizio dell’opposizione societaria e concorsuale, il creditore potrà esercitare il diritto di opposizione unitaria tramite il deposito della memoria prevista dall’art. 48, comma 2, anche se nulla esclude che egli “prenoti” precauzionalmente l’opposizione unitaria con atto stragiudiziale o con una richiesta ex art. 700 di cui si dirà nel prosieguo.

Vi è invece da chiedersi cosa accada quando i due periodi non si sovrappongano neppure per un giorno, per essere il termine finale dell’opposizione societaria già scaduto prima che decorra il termine iniziale di quella concorsuale o, nel caso opposto, per essere il termine iniziale dell’opposizione societaria non ancora decorso quando sia già scaduto il termine finale per quella concorsuale. Di ciò si occupano i successivi due capitoli.

 

Le operazioni precoci

Il caso qui analizzato è quello delle operazioni attuate agli esordi della procedura concordataria e per le quali non sia ancora decorso il termine iniziale dell’opposizione concorsuale (momento 2.1) e tuttavia sia già scaduto il termine finale dell’opposizione civilistica (momento 1.2); si tratta ovviamente di operazioni che necessitano in ogni caso di autorizzazione giudiziale.

Si pone qui un problema procedurale, posto che prima del termine iniziale dell’opposizione concorsuale il procedimento di omologazione non è ancora iscritto a ruolo, e dunque nessuna opposizione unitaria tempestiva può essere ritualmente proposta dal creditore.

In tal caso si presentano le seguenti interpretazioni alternative.

La prima è che la società non possa dare corso all’operazione straordinaria fino a dieci giorni prima dell’udienza di omologazione, poiché prima di allora non è dato conoscere se constino opposizioni.

Tale soluzione costringerebbe a posporre fino a ridosso dell’omologazione le operazioni straordinarie precoci anche quando nessun creditore intenda opporsi ad esse: si impedirebbero così operazioni molto utili nella fase iniziale della procedura, ad esempio quelle volte a collocare urgentemente sul mercato un’azienda i cui beni siano distribuiti su più società (è il caso della fusione attuata in fase prenotativa trattato da Trib. Modena 22 luglio 2016); inoltre verrebbe concesso ai creditori un termine per l’opposizione all’operazione oltremodo dilatato rispetto al regime ordinario di sessanta, trenta o quindici giorni, agevolando comportamenti ostruzionistici.

La seconda interpretazione è che, al contrario, si debba semplicemente prendere atto dell’impossibilità di esercitare l’opposizione unitaria in tempo utile, e che dunque la società possa dare corso all’operazione straordinaria senza altro vincolo che quello della preventiva autorizzazione giudiziale. Anche questa soluzione non pare del tutto soddisfacente, sia perché è priva di base giuridica, sia perché è illogica, in quanto crea una disparità di trattamento dei creditori a seconda che l’operazione venga attuata agli albori della procedura o più avanti nel corso di essa; né l’autorizzazione giudiziale può giustificare la soppressione del diritto di opposizione, poiché generalmente essa viene concessa sulla base di accertamenti sommari a causa dell’urgenza, della mancanza di un piano definitivo e comunque di un quadro completo circa l’ammissibilità e la fattibilità della proposta e del piano.

La terza alternativa, da preferire alle precedenti, è che all’operazione societaria si dia corso una volta scaduto il termine dell’opposizione civilistica, salvo che uno o più creditori abbiano comunicato la propria opposizione entro tale termine; questa interpretazione è orientata a salvaguardare la finalità della riforma, che è di agevolare tali operazioni straordinarie, e deve portare ad ammettere la possibilità di attuarle nella fase iniziale della procedura, salvo constino atti “prenotativi” dell’opposizione unitaria. Peraltro anche l’esistenza di opposizioni prenotative non esclude la possibilità di dare corso anticipatamente alla fusione, come più oltre illustrato.

Dubbio è tuttavia lo strumento, sostitutivo della memoria di cui all’art. 48, comma 2, col quale comunicare tempestivamente l’opposizione, posto che non esiste ancora un procedimento iscritto a ruolo.

Una prima ipotesi è che il creditore possa ricorrere ad un atto stragiudiziale, cioè ad una semplice comunicazione inviata alla società, considerato che la libertà della forma degli atti non è derogata dall’art. 2503, comma 2, c.c. Va però osservato che la giurisprudenza più recente, seppur riferita a società in bonis, tende a non ammettere l’opposizione societaria in forma stragiudiziale (Trib. Napoli 19 gennaio 2016, Trib. Milano 14 novembre 2011, App. Genova 4 febbraio 2010) mentre è favorevole la giurisprudenza più risalente (Trib. Milano 10 marzo 2005 e 25 febbraio 2005) e il notariato (Consiglio Notarile di Roma, massima n. 4, luglio 2013.

Una seconda ipotesi alternativa, la quale consente di salvaguardare la natura processuale dell’opposizione, è di attuarla attraverso un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.: il carattere di strumentalità fortemente attenuata del procedimento consentirebbe di farvi ricorso anche quando il giudizio di merito non sia ancora instaurato per non essere stata fissata l’udienza di omologazione.

Qualora il creditore “prenoti” l’opposizione unitaria, nell’una o nell’altra forma ma beninteso nell’ambito temporale concessogli di sessanta, trenta o quindici giorni dall’iscrizione delle decisioni dei soci, il procedimento dovrà essere sospeso fino al giudizio di omologazione.

Che il procedimento debba essere sospeso si desume dal richiamo all’art. 2445, comma 4, c.c., operato sia dall’art. 2503, comma 2 che dall’art. 2500 novies, comma 2, c.c., il quale consente alla società di chiedere all’autorità giudiziaria l’autorizzazione all’esecuzione dell’operazione straordinaria in pendenza di opposizione; autorizzazione che sarebbe superflua se il procedimento non fosse sospeso.

Ed allora, nel dubbio di quale sia la forma appropriata di opposizione alle operazioni precoci e confidando che prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, prevista per il 15 agosto 2020, il legislatore vi metta mano nel quadro della legge delega per l’adozione di correttivi alla riforma (D.Lgs. n. 20/2019), non resta che suggerire pragmaticamente al creditore opponente di adottare tutte le misure di difesa qui indicate al fine di sospendere l’esecuzione dell’operazione straordinaria: opposizione stragiudiziale e istanza ex art. 700, nonché, una volta fissata l’udienza di omologazione, deposito dell’apposita memoria di costituzione nel relativo giudizio ex art. 48.

 

Le operazioni differite e la pubblicazione del piano

Secondo l’art. 116, comma 2 il tribunale, nel provvedimento di fissazione dell’udienza di omologazione, dispone che il piano sia pubblicato nel registro delle imprese del luogo ove hanno sede le società interessate dalle operazioni di trasformazione, fusione o scissione. Tra la data della pubblicazione e l’udienza devono intercorrere almeno trenta giorni.

La pubblicazione del piano è stata introdotta per “garantire l’effettività del diritto di proporre opposizione” (relazione illustrativa nella versione del 10 gennaio 2019) a seguito di sollecitazione pervenuta dalla Commissione Giustizia della Camera, la quale aveva chiesto di “accrescere le garanzie per gli eventuali opponenti” (verbale di seduta della Commissione del 19 dicembre 2018).

Si sarebbe tentati di attribuire a tale adempimento null’altro che una valenza informativa. Questa interpretazione per così dire poco invasiva consentirebbe di non scardinare l’ordinario meccanismo civilistico di opposizione.

In realtà non può essere così, e si deve giungere all’opposta conclusione che i creditori possono esercitare l’opposizione unitaria per tutte le operazioni differite fin dalla pubblicazione del piano, quand’anche non risultino ancora adempiute le formalità pubblicitarie previste dal codice civile.

Si consideri un’operazione straordinaria attuata nella fase esecutiva della procedura; in assenza di pubblicità preventiva, nessun creditore avrebbe la possibilità di opporvisi in tempo utile, cioè in occasione dell’omologazione, e ciò consentirebbe un facile aggiramento della disciplina; tanto varrebbe anche per le operazioni attuate durante la fase finale della procedura ogniqualvolta il termine iniziale dell’opposizione civilistica (momento 1.1) decorra dopo che sia scaduto il termine finale dell’opposizione concorsuale (momento 2.2).

La pubblicità del piano ha proprio lo scopo di anticipare la conoscenza dell’operazione, così da consentire l’esercizio tempestivo dell’opposizione unitaria; evidentemente il legislatore ha ritenuto inadeguata a tali fini la precedente pubblicazione della domanda definitiva di concordato ex art. 40, comma 3, la quale viene depositata senza allegati e generalmente contiene solo una sintesi del piano.

In conseguenza di questo regime, i tempi di opposizione alle operazioni differite risultano particolarmente compressi, e comunque mai superiori al lasso di tempo (non inferiore a venti giorni) intercorrente tra la pubblicazione del piano e il termine per l’opposizione unitaria. Potrà comunque darsi il caso di tempi di opposizione ancora più brevi, come ad esempio quando alla fusione prenda parte una banca.

Il termine dei sessanta, trenta o quindici giorni si dovrebbe computare dall’anteriore tra il momento dell’iscrizione della decisione dei soci e quello della pubblicazione del piano. Nello stesso rapporto si dovrebbero porre l’iscrizione del progetto di fusione e scissione e la pubblicazione del piano, avuto riguardo all’individuazione dei soggetti che possono esercitare o meno l’opposizione in funzione dell’epoca di insorgenza del loro credito.

Impossibile essere più assertivi: il condizionale fin qui adottato è d’obbligo, data l’assenza di chiari indizi interpretativi, e non resta che confidare nell’intervento correttivo del legislatore.

Restando nell’ambito delle operazioni differite, decorso il termine per l’opposizione, se nessuno l’abbia esercitata, l’operazione straordinaria potrà essere immediatamente attuata; in caso contrario vi si potrà dare corso solo in presenza di autorizzazione oppure occorrerà attendere il giudizio di omologazione. Giudizio che sarà particolarmente complesso quando si tratti di valutare il rischio di lesione patrimoniale indotto da una operazione da attuare mesi o anni dopo il giudizio di omologazione; epoca in cui le situazioni economiche, patrimoniali e finanziarie delle società coinvolte saranno molto diverse da quelle vigenti all’epoca di pubblicazione del piano.

Quanto alle ordinarie formalità dell’iscrizione del progetto e delle decisioni dei soci, ragioni di prudenza inducono a ritenere che sopravvivano anche nel caso siano in cui siano precedute dalla pubblicazione del piano, trattandosi pur sempre di adempimenti derivanti da norme “compatibili” ex art. 116, comma 3.

 

I creditori ammessi all’opposizione

Poiché la norma disciplina l’opposizione unitaria dei “creditori” senza fornire ulteriori specificazioni, essa deve intendersi estesa non soltanto ai creditori anteriori al deposito della domanda di concordato bensì anche a quelli sorti durante la procedura e anche dopo la sua omologazione; diversamente si assisterebbe a molteplici regimi di opposizione per gli uni e gli altri, chiaramente non voluti dalla norma.

La giurisprudenza ha in passato indicato come legittimati a proporre l’opposizione societaria anche i titolari di crediti sottoposti a condizione o a termine, illiquidi o non esigibili, anche aventi ad oggetto prestazioni diverse dal denaro (Trib. Napoli 10 febbraio 2016), nonché i crediti relativi a rapporti in corso di esecuzione, chirografari o assistiti da garanzie ed anche crediti litigiosi, purché la pretesa sia ragionevolmente fondata (Trib. Milano 14 novembre 2011). La trasposizione di questi orientamenti giurisprudenziali alle operazioni regolamentate dall’art. 116 è senz’altro legittima, poiché l’opposizione concorsuale può essere esercitata da “qualsiasi interessato” ai sensi dell’art. 48, comma 2.

Altra questione dibattuta in giurisprudenza nel caso di società in bonis, ma che trova agevolmente soluzione nel caso di società in concordato preventivo, è se spetti o meno la sospensione feriale dei termini per l’esercizio dell’opposizione societaria (a favore le comunicazioni dei conservatori del registro delle imprese di Milano del 27 novembre 2012 e di Roma del 24 luglio 2013; contro Trib. Milano 7 novembre 2004): la risposta è negativa, tenuto conto che secondo l’art. 9 la sospensione feriale non spetta per i procedimenti disciplinati dal Codice, salvo quando sia diversamente disposto, e nel concordato preventivo non lo è.

In caso di fusione fra società in bonis e in concordato, soltanto i creditori di quest’ultima subiscono l’unificazione delle opposizioni, poiché fino a quando la fusione è perfezionata i creditori della prima non sono creditori della società in procedura e dunque conservano inalterati i loro diritti di opposizione societaria autonoma.

Inoltre i crediti di quest’ultima sono a tutti gli effetti crediti posteriori, e quindi devono essere soddisfatti integralmente (Trib. Prato 22 luglio 2014; nello stesso senso R. Brogi, Il concordato preventivo di gruppo e la fusione, in www.osservatorio-oci.org.).

Ma oltre a essere crediti posteriori sono anche prededucibili?

Il Codice ha riformato la disciplina della prededuzione sopprimendo il generico criterio di funzionalità ed occasionalità e prevedendo che essa venga riconosciuta solo quando i crediti sorgano per effetto di atti legalmente sorti o compiuti in corso di procedura (cfr. art. 6, comma 1, lett. d) e 46, comma 4); pertanto quando la fusione di società in concordato con società in bonis venga legalmente attuata in corso di procedura, i crediti vantati verso quest’ultima acquistano una incontestabile natura prededucibile.

La stessa disciplina non può essere invocata, invece, quando la fusione venga attuata a procedura chiusa, poiché il fatto genetico che origina tali debiti risiede nella successiva iscrizione dell’ultimo degli atti di fusione nel registro delle imprese ex art. 2504 bis, comma 2, c.c.

E l’art. 2504 bis, comma 1, c.c., secondo il quale “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”, può tuttalpiù giustificare il pagamento del debito alla scadenza naturale ereditata per effetto della fusione, ma non anche il suo soddisfacimento prioritario nelle successive procedure esecutive o concorsuali; benefici, questi, che invece vengono entrambi riconosciuti ai crediti prededucibili ex artt. 98 e 6, comma 2.

Semmai la natura prededucibile dei debiti di società in bonis incorporata o fusa si può far discendere dall’art. 100, per essere essi assimilabili ai finanziamenti “in esecuzione”, in qualsiasi forma effettuati.

Un’altra possibile chiave interpretativa è rappresentata dall’applicazione analogica dell’art. 142 (già art. 42 l.fall.), dettato per la liquidazione giudiziale, secondo il quale sono compresi nel patrimonio anche i beni che pervengono al debitore durante la procedura, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi, che sono dunque da soddisfare per l’intero.

Proprio in forza dell’art. 2504 bis, comma 1, c.c., la confusione dei patrimoni che si determina con la fusione non implica il venir meno dei privilegi e delle procedure esecutive pregresse esistenti sui beni delle società partecipanti; così ad esempio gli effetti protettivi conseguenti alla pubblicazione del ricorso riguardano solo il patrimonio del debitore in concordato e i creditori anteriori di quest’ultimo, e non anche il patrimonio e i creditori di un soggetto estraneo successivamente incorporato o fuso, i quali possono proseguire indisturbati eventuali procedure esecutive (Cass. 18 gennaio 2018, n. 1181).

Merita un esame incidentale anche il trattamento da riservare al creditore che vanti un credito verso una società e che sia contestualmente garantito da un’altra società, nel caso in cui intervenga la loro fusione; la situazione è destinata a proporsi nei gruppi insolventi in cui una società abbia rilasciato a favore di terzi una garanzia per debiti dell’altra ed intervenga la successiva fusione tra le due.

Recita l’art. 1255 che “Se nella medesima persona si riuniscono le qualità di fideiussore e di debitore principale, la fideiussione resta in vita, purché il creditore vi abbia interesse.”.

La norma sembra consentire al creditore di vantare una doppia pretesa verso l’una e l’altra società, ma non è così. La Relazione al codice civile dell’art. 1255 chiarisce che la norma non può essere interpretata nel senso di consentire una doppia pretesa al creditore, “poiché nessuno può essere garante di sé stesso”. Essa deve invece essere interpretata nel senso che la confusione dei patrimoni determina l’estinzione della garanzia, salvo che il creditore abbia interesse a conservarla, e ciò si realizza quando la fideiussione è suscettibile di determinare effetti giuridici propri, nonostante sia identica la persona del debitore e quella del fideiussore, come è il caso ad esempio del fideiussore a sua volta assistito da garanzie reali (l’esempio è di F. Lamanna, Garanzie reali e personali prestate dal socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali e limiti al concorso del creditore garantito, in questa Rivista, 3/1991) oppure assistito da altra fideiussione (fideiussore del fideiussore: art. 1940 c.c.; così C. M. Bianca, Codice civile, L’obbligazione, vol. 4, 524); la perdurante efficacia della fideiussione è dunque giustificata dall’interesse ad avvalersi della garanzia reale o personale di cui gode il fideiussore.

 

Le operazioni anticipate

Per operazioni anticipate si intendono quelle che possono essere attuate immediatamente a causa dell’inibizione dell’opposizione societaria. Non devono essere confuse con le operazioni precoci, precedentemente trattate, cioè quelle attuate agli esordi della procedura concorsuale.

L’opposizione societaria è ordinariamente inibita in caso di fusione o scissione quando consti, ai sensi dell’art. 2503 c.c.:

1) il consenso dei creditori;

2) il pagamento dei creditori;

3) il deposito presso una banca delle somme corrispondenti ai crediti (o, secondo dottrina, di fideiussione bancaria);

4) la relazione asseverata di una unica società di revisione che la situazione patrimoniale e finanziaria delle società coinvolte non impone il rilascio di garanzie a favore dei creditori.

L’opposizione societaria è altresì inibita nei più limitati casi di trasformazione eterogenea disciplinati dall’art. 2500 novies c.c., e cioè quando:

1) consti il consenso di tutti i creditori;

2) siano stati pagati i creditori che non hanno dato il consenso.

Qualora la società riesca ad adempiere alle prescrizioni sopra indicate, essa può validamente ed efficacemente stipulare l’atto di fusione o scissione o portare a termine la trasformazione anche in pendenza del termine per l’opposizione ed anche in pendenza dell’opposizione stessa, che il tribunale dovrà rigettare, disponendo il “non luogo a procedere”, non avendo il creditore diritto ad una ineluttabile pronuncia giurisdizionale (A. Busani, La stipula dell’atto di fusione nonostante l’opposizione dei creditori, in Società, 11/2015).

Quelle sopra elencate sono ipotesi generalmente inapplicabili in concordato, ove si consideri la naturale diffidenza dei creditori concorsuali, il divieto di pagare o garantire i crediti anteriori in violazione della par condicio e, nel caso dell’asseverazione, la difficoltà di ottenerla in considerazione dell’elevata incertezza di cui soffrono le stime andamentali di società in crisi o insolventi.

Quanto a quest’ultimo punto vi è semmai da chiedersi se l’attestazione del professionista indipendente possa tenere luogo dell’asseverazione della società di revisione ex art. 2503 c.c., considerato che anche la prima si risolve in una stima della capacità di adempimento, sebbene limitatamente alla percentuale concordataria, ed è verosimilmente connotata da una maggiore incisività rispetto alla seconda (allo stesso modo si ritiene che l’attestazione sostituisca la relazione sul concambio ex art. 2501 sexies c.c.; M.C. di Martino, Fusione e soluzioni concordate della crisi, Torino, 2017, 103). L’adempimento determinerebbe comunque una responsabilità da valutarsi secondo i parametri della diligenza professionale e che non varrebbe a far assumere all’attestatore la responsabilità sussidiaria per i debiti inadempiuti (così per la società di revisione M. Cavanna, La fusione, Commentario Scialoja-Branca-Galgano, 2018, 261).

 

Il procedimento

Nel caso di operazioni attuate in corso di procedura, oppure dopo la sua omologazione, il procedimento di opposizione all’operazione straordinaria, che ordinariamente rientrerebbe nella competenza del tribunale sede delle sezioni specializzate in materia di imprese (la riserva è esplicita per l’art. 2503 c.c. ed implicita per l’art. 2500 novies, in forza del riferimento ai “rapporti societari” operato dal D.Lgs. n. 168/2003, art. 3, comma 2, lett. a); così P. Celentano, Le sezioni specializzate in materia d’impresa, in Società, 7/2012), deve essere trattato dal tribunale concorsuale, cioè da quello competente per i procedimenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, individuato ai sensi dell’art. 27, comma 2; ciò in quanto si tratta di contestazione da esercitare nell’ambito del giudizio di omologazione, che è appunto di competenza del tribunale concorsuale. Non si tratta tuttavia di controversia da trattare necessariamente in via prioritaria ex art. 5, comma 3 Codice, essendo i termini del suo esame rinviati al giudizio di omologazione e scanditi dall’art. 48.

In sede di omologazione il tribunale dispone di numerose informazioni circa la capacità della debitrice di adempiere la proposta concordataria: piano e proposta del debitore, attestazione del professionista indipendente, relazione particolareggiata ai fini del voto (art. 105) e motivato parere ai fini dell’omologazione (art. 48, comma 2) predisposti dal commissario giudiziale.

Questo ampio set documentale consente al tribunale una decisione rapida, oltre che informata, in ordine alla valutazione del pericolo di pregiudizio subìto dal creditore che si opponga all’operazione straordinaria.

Nell’istruttoria, il tribunale non può limitarsi a valutare solo l’interesse unilaterale del creditore opponente alla propria tutela patrimoniale, bensì deve contemperarlo con l’interesse della società a portare a termine l’operazione straordinaria, tenuto anche conto delle “gravi conseguenze che produce l’effetto sospensivo provocato dall’opposizione”. Così si è ritenuto nel caso di società in bonis (Trib. Milano 19 agosto 2015), e la prescrizione deve valere a maggior ragione per società in concordato preventivo, ove occorre salvaguardare l’interesse prioritario di tutti i creditori, e non soltanto di taluno di essi, considerate altresì le tutele alternative di cui questi gode.

È ipotizzabile che il tribunale concorsuale omologhi il concordato ma si pronunci contro l’attuazione dell’operazione straordinaria prevista nel piano?

Il tenore letterale dell’art. 116, comma 1 non pare impedire l’ipotesi di provvedimenti “divergenti” in sede di omologazione, ed il caso può concretizzarsi quando proposta e piano ottengano il voto favorevole dei creditori e superino il vaglio di ammissibilità giuridica e di fattibilità economica (art. 47, comma 1) ma l’operazione straordinaria riceva l’opposizione di uno o più creditori e non sia funzionale alla realizzazione del piano, bensì volta a soddisfare gli interessi personali dei soci, e che per ciò stesso possa essere sacrificata senza conseguenze apprezzabili su tempi, modi e percentuali di soddisfacimento dei creditori.

Tuttavia l’ipotesi di un provvedimento divergente di omologazione e contestuale rigetto dell’operazione straordinaria deve essere esclusa sulla base della ovvia constatazione che il tribunale non può rendere obbligatorio per i creditori anteriori un concordato diverso da quello attestato e votato favorevolmente dai creditori stessi. È però fatto salvo il caso che la domanda di concordato preveda già essa, in via subordinata, di rinunciare all’operazione straordinaria, nel qual caso potrà comunque darsi corso all’omologazione (Trib. Ravenna 29 ottobre 2015).

Come precisato, in pendenza di opposizione l’operazione straordinaria deve essere sospesa, e tanto si desume dal tenore dell’art. 2445, comma 4, c.c.; sospensione che deve applicarsi anche in caso di concordato preventivo, poiché altrimenti il diritto di opposizione all’operazione straordinaria che l’art. 116 intende regolamentare sarebbe svuotato di utilità.

L’art. 2445, comma 4, c.c. prevede per le società in bonis che, quando il tribunale ritiene infondato il pericolo di pregiudizio, si procede con l’operazione e nessuna garanzia è dovuta; se invece riconosce la fondatezza del pericolo di pregiudizio, può disporre che si dia corso all’operazione nonostante l’opposizione, previa prestazione di idonea garanzia, ovviamente a favore del solo creditore opponente e non anche di tutti gli altri creditori. L’eventuale autorizzazione del tribunale ad eseguire l’operazione non chiude il giudizio di opposizione, che prosegue fino alla decisione di accoglimento o rigetto.

Tanto vale anche in caso di concordato preventivo, con i dovuti adattamenti consentiti dalla riserva di compatibilità di cui all’art. 116, comma 4, che richiama indirettamente l’art. 2445, comma 4, c.c.

Pertanto una società può essere autorizzata in corso di procedura ex art. 46, comma 1 o 94, comma 3 dal tribunale concorsuale ad attuare l’operazione straordinaria in pendenza di opposizione, qualora si tratti di atto urgente o funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; ovviamente in questo caso l’autorizzazione in pendenza di opposizione non può essere subordinata alla preventiva prestazione di idonea garanzia, poiché ciò si tradurrebbe in una violazione della par condicio.

Anche in caso di concordato l’autorizzazione non estingue il giudizio di opposizione societaria, che viene successivamente definito contestualmente al giudizio di omologazione. Invece il diniego di autorizzazione non deve comportare la caducazione dell’operazione straordinaria, che resta semplicemente sospesa fino al giudizio di omologazione, nel quale l’opposizione potrà essere accolta o rigettata, così determinando, rispettivamente, l’interruzione o la prosecuzione dell’iter dell’operazione straordinaria (e talvolta della relativa proposta concordataria). Nessun elemento testuale indica infatti che il diniego di autorizzazione precluda un successivo provvedimento di merito favorevole all’operazione in sede di omologazione (come invece ritenuto per il caso della fusione di società in bonis da M. Cavanna, op. cit., 242).

A tale proposito, la dottrina si è interrogata sulle conseguenze, in caso di fusione di società in bonis, dell’accoglimento dell’opposizione all’operazione straordinaria dopo che il tribunale l’abbia autorizzata ed essa sia stata attuata (così divenendo irretrattabile), ed è giunta alla conclusione che si configuri una inefficacia dell’atto di fusione ex nunc verso tutti i creditori anteriori al progetto di fusione, i quali sarebbero così legittimati ad aggredire i beni della società prevalendo sui creditori posteriori (M. Cavanna, op. cit., 244).

Tale interpretazione contrasta con la irretroattività delle operazioni straordinarie, che impedisce la pronuncia anche della loro inefficacia (Trib. Milano 10 dicembre 2014), una volta intervenute le formalità pubblicitarie previste per perfezionarle, e postula una sorta di separazione di patrimoni della debitrice che non si concilia con la disciplina concorsuale, dove le uniche preferenze riconosciute sono quelle delle prededuzioni e delle prelazioni.

Pertanto l’accoglimento dell’opposizione dopo che l’operazione sia stata autorizzata ed attuata costituisce verosimilmente un pronunciamento giurisdizionale privo di effetti concreti; per questo motivo l’autorizzazione dovrà essere ispirata a particolare prudenza.

Resta in ogni caso il diritto al risarcimento del danno al creditore previsto dall’art. 116, comma 3.

La società debitrice potrà comunque modellare o adattare la domanda di concordato in maniera da ottenere la desistenza del creditore opponente, ad esempio inserendo il credito in un’apposita classe con trattamento favorevole, considerato che la pendenza di un’opposizione societaria determina certamente una “posizione giuridica” ex art. 2, lett. r) disomogenea rispetto agli altri creditori.

 

Le operazioni condizionate

La condizione sospensiva rappresenta uno strumento molto efficace per attribuire effetti definitivi ad un’operazione straordinaria subordinatamente all’omologazione, impedendo che essa determini conseguenze permanenti nella sfera patrimoniale dei creditori in caso di arresto prematuro della procedura.

La condizione elimina anche il rischio di inerzia o ostruzionismo degli organi sociali della debitrice o della società terza deputati a dare esecuzione all’operazione dopo l’omologazione, anche considerato che la pendenza di una procedura concorsuale non sottrae alla competenza esclusiva dei soci la decisione di attuare un’operazione straordinaria, né a quella dell’organo amministrativo di predisporre il progetto di fusione o scissione e di stipulare i relativi atti (così tra gli altri I. Pagni, Operazioni straordinarie e procedure preventive: profili processuali, in questa Rivista, 10/2017; propende invece per l’attribuzione all’organo amministrativo dei poteri per il compimento degli atti attuativi del piano, trattandosi dello stesso soggetto che ha determinato il contenuto della proposta, V. Pinto, Concordato preventivo e organizzazione sociale, in Riv. Società, 1/2017); competenze esclusive che non sarebbero derogate neppure qualora sia nominato un liquidatore giudiziale (Consiglio Notarile di Firenze Pistoia e Prato, massima n. 50, 2015).

Il commissario giudiziale può sopperire solo parzialmente a tale inerzia o ostruzionismo, perché se è ipotizzabile che il giudice delegato possa attribuirgli ex art. 118, comma 4 i poteri necessari a stipulare l’atto di fusione o scissione in luogo del legale rappresentante, sembrerebbe invece escluso che possano essergli conferiti poteri sostituitivi delle propedeutiche decisioni dei soci della debitrice (l’art. 118, comma 6, che prevede tale ipotesi, pare circoscriverla solo alle proposte concorrenti inadempiute) e men che meno dei soci della società terza eventualmente coinvolta nella fusione.

Regole di buona pratica consigliano dunque di completare l’iter dell’operazione straordinaria già nel corso della procedura concordataria – e possibilmente prima della votazione, in modo che i votanti possano fare affidamento su scenari attendibili – anziché posticiparne l’attuazione alla fase esecutiva, e di condizionarne al contempo l’efficacia all’omologazione. In tal caso l’operazione non produce effetti definitivi ed irreversibili qualora non si giunga all’omologazione, né la sua attuazione è esposta al rischio della mancata cooperazione di organi sociali durante la fase esecutiva.

L’apposizione di una condizione sospensiva (o, sortendo lo stesso effetto, di un termine iniziale) in atti societari è pacificamente ritenuta ammissibile (M. Stella Richter, La condizione e il termine nell’atto costitutivo delle società di capitali e nelle deliberazioni modificative, CNN, Studio n. 50-2009/I), sia per il caso di fusioni e scissioni (F. Guerrera – M. Maltoni, op. cit.; in giurisprudenza Trib. Ferrara 8 aprile 2014) che per le trasformazioni eterogenee (Comitato Triveneto dei notai, K.A.10; CNN, Studio n. 63-2014/I).

Tuttavia la condizione sospensiva non può essere apposta quando fusioni o scissioni comportino la costituzione di nuove società, come in caso di fusioni proprie (cioè diverse da quelle per incorporazione; art. 2504 bis, comma 2) e di scissioni con costituzione, appunto, di nuove società (art. 2506 quater, comma 1).

Il divieto, nei casi esposti, di postdatazione degli effetti di operazioni di fusione e scissione fu introdotto con il D.Lgs. n. 22/1991, per la asserita difficoltà di concepire l’esistenza di un soggetto giuridico temporaneamente privo di patrimonio; infatti, secondo la relazione ministeriale “è invero arduo, anche da un punto di vista logico, concepire un soggetto giuridico (la società risultante dalla fusione) esistente (in quanto la fusione è stata regolarmente stipulata e resa pubblica) ma privo di patrimonio (in quanto la fusione non ha ancora prodotto i suoi effetti) e dunque incapace di fungere da centro di imputazione di responsabilità”.

Le ragioni di tale disciplina sembrano meno stringenti in un’epoca, quella attuale, in cui “l’attacco al mantenimento dell’istituto del capitale sociale è diventato frontale” (F. Briolini, Verso una nuova disciplina delle distribuzioni del netto?, in Riv. Società, 1/2016) sotto molteplici aspetti: sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione o scioglimento nelle società in concordato, nelle start-up e PMI innovative; possibilità di costituire una società a responsabilità limitata semplificata con il capitale minimo di un euro e una società per azioni con il capitale minimo di 50.000.

Peraltro né le direttive comunitarie a cui il D.Lgs. n. 22/1991 si ispirava, né quelle successivamente intervenute in materia di fusioni e scissioni, ponevano e pongono vincoli in materia; al contrario, tutte (da ultima la n. 2017/1132/UE) hanno sempre contenuto la previsione esplicita “Le legislazioni degli Stati membri determinano la data in cui la fusione/scissione ha efficacia”.

Vi è pertanto ragione di ritenere che il divieto di postdatazione nei casi indicati possa essere derogato ai sensi dell’art. 116, comma 4; in tal modo diviene possibile postdatare, tramite condizioni sospensive o termini iniziali, gli effetti di fusioni e scissioni di società in concordato preventivo, anche nel caso in cui comportino la costituzione di nuove società, considerata peraltro la contestuale vigilanza dell’autorità giudiziaria (favorevole alla post-datazione della fusione propria, sebbene con altre argomentazioni: F. Magliulo, La fusione di società, Milano, 2009, 461).

Quanto alla competenza a decidere la post-datazione, vi è contrasto in dottrina se essa spetti ai soci in sede di approvazione del progetto oppure agli amministratori, pur in assenza di una preventiva e specifica previsione nel progetto (M.C. di Martino, op. cit., 137, nota 351). Prudentemente pare comunque opportuno investire della questione i soci.

La condizione sospensiva dovrà essere apposta all’atto di fusione o scissione (oppure alla decisione di trasformazione); non pare invece appropriato apporre condizioni alle decisioni di fusione e scissione che lo precedono perché non si porrebbe rimedio al rischio di inerzia o ostruzionismo degli amministratori della debitrice o della società terza, i quali potrebbero successivamente astenersi dallo stipulare l’atto di fusione o scissione.

In nessun caso può essere invece apposta una condizione risolutiva all’atto di fusione e scissione e alla deliberazione di trasformazione, poiché dalla disciplina societaria emerge una stabilità degli effetti delle operazioni straordinarie che non si concilia con la retroattività dei nuovi assetti che esse determinano (Trib. Ferrara 8 aprile 2014).

Generalmente, nel caso di atti e deliberazioni condizionate che siano già iscritte nel registro delle imprese, si ritiene che gli amministratori debbano procedere a iscrivere una ulteriore dichiarazione di avveramento della condizione, quando essa si verifica, in analogia con quanto previsto dall’art. 2444 per l’attestazione dell’avvenuta esecuzione dell’aumento di capitale (Massime dell’Osservatorio Conservatori Notai presso il Registro delle Imprese di Milano).

Nel caso qui trattato tuttavia tale dichiarazione di avveramento appare superflua, in quanto l’evento dedotto in condizione – l’omologazione – è già oggetto di autonoma pubblicazione ai sensi dell’art. 48, comma 6, e dunque il creditore ne ha conoscenza legale senza necessità di ulteriori adempimenti.

Che la condizione sospensiva debba essere costituita dalla definitività o provvisorietà del provvedimento di omologazione è sostanzialmente frutto di una scelta esplicitamente operata dalla debitrice nella proposta concordataria; qualora nulla sia precisato, ritengo che realizzi l’avveramento della condizione anche un provvedimento di omologazione assunto in pendenza di opposizione, in quanto esso è, comunque, provvisoriamente esecutivo (artt. 48, comma 6 e 51, comma 4), fermo restando che la Corte d’Appello, in attesa di decidere sul reclamo, potrà ordinare l’inibitoria, in tutto o in parte o temporanea, dell’attuazione del piano (art. 52, comma 1), e tanto dovrà fare in particolare quando l’opposizione pendente concerna proprio l’operazione straordinaria, al fine di interromperne l’esecuzione.

Come noto, la stipulazione dell’atto di fusione o scissione è preceduto dalle decisioni di approvazione dei relativi progetti da parte delle assemblee delle società che vi partecipano, o dei consigli di amministrazione nei casi di cui agli artt. 2505 e 2505 bis. Tali decisioni non generano conseguenze sul piano patrimoniale o organizzativo; quindi possono essere assunte in qualunque tempo, fatti salvi i limiti temporali di matrice societaria (che in realtà non esistono, ed a tale vuoto legislativo ha tentato di supplire la prassi: Consiglio Notarile di Milano, Massima n. 87 e CNN, Quesito di Impresa n. 211-2012/I) e senza necessità di autorizzazione giudiziale (Consiglio Notarile di Firenze, Pistoia e Prato, massime 36/2013 e 37/2013).

 

L’irretrattabilità assoluta e la tutela risarcitoria

Per l’art. 116, comma 3 gli effetti di fusioni, scissioni e trasformazioni previste nel piano e compiute durante o dopo la procedura, in caso di risoluzione o di annullamento del concordato, sono irreversibili, salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi (tra i quali rientrano senz’altro i creditori) ai sensi degli artt. 2500 bis, comma 2, 2504 quater, comma 2, e 2506 ter, comma 5, c.c. È così declassata dal piano reale al piano risarcitorio la tutela dei creditori.

Peraltro già oggi è incontroverso che l’invalidità dell’operazione non possa più esserne pronunciata dopo l’iscrizione del relativo atto nel registro delle imprese, in forza del cosiddetto “effetto sanante” della pubblicità (Trib. Roma 7 luglio 2015, Trib. Milano 2 ottobre 2015 e altre), in conformità rispettivamente agli artt. 2500 bis, comma 1, 2504 quater, comma 1 e 2506 ter, comma 5, c.c.. Con la precisazione che in caso di trasformazione gli effetti sananti dell’art. 2500 bis, comma 1 si producono solo con la pubblicità della dichiarazione di avveramento della condizione di mancata opposizione effettuata allo spirare dei sessanta giorni dalla iscrizione della decisione di trasformazione (Così P. Criscuoli – M. Ciarleglio, op. cit.).

Impossibilità di pronuncia dell’invalidità che ha portata generale, quand’anche l’operazione contrasti con i principi regolatori dell’istituto (pronuncia in tema di scissione negativa, più oltre commentata: Cass.  20 novembre 2013, n. 26043), che ricomprende ogni ipotesi di nullità o annullabilità dell’atto o del procedimento (Cass. 20 dicembre 2005, n. 28242) nonché di sua inefficacia (Trib. Milano 10 dicembre 2014), e che si estende fino a negare la possibilità di invocarne la cancellazione d’ufficio ex art. 2191 c.c. (Trib. Bologna 14 dicembre 2016).

Controverso è invece se sia esperibile nei confronti della scissione l’azione revocatoria ordinaria e fallimentare, la quale secondo taluni sarebbe compatibile con la irretroattività dell’operazione, non cancellandone gli effetti ma rendendoli soltanto inefficaci sotto il profilo patrimoniale (così Trib. Venezia 5 febbraio 2016); tanto che si è assistito ad un “bipolarismo” giurisprudenziale in seno allo stesso tribunale nell’arco di pochi mesi (a favore della revocatoria Trib. Roma 16 agosto 2016; contro Trib. Roma 7 novembre 2016) e la Corte d’Appello di Napoli ha rimesso la questione alla Corte di Giustizia Europea (ord. 20 marzo 2018; sul punto P. Pototschnig, La revocabilità della scissione all’esame della corte di giustizia europea, in Società, 12/2018).

Evidente è l’interesse della curatela alla revoca della scissione: la declaratoria di inefficacia dell’operazione consente infatti di aggredire i beni fuoriusciti dalla sfera patrimoniale della scissa.

Non occorre qui soffermarsi sulle ragioni a favore e contro la revocabilità della scissione (per un’ampia rassegna si veda A. Busani – F. Urbani, Operazioni straordinarie: la scissione, in Società, 12/2017); basti considerare che le scissioni attuate in pendenza di procedura, oppure nella fase esecutiva di un concordato, trovano già copertura dal rischio di revocatoria anche ordinaria, come precisa l’art. 166, comma 3, lett. e), il quale fa salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti in corso di procedura e degli atti posti in essere in esecuzione del concordato preventivo.

La fusione non è stata interessata dallo stesso dibattito circa la sua revocabilità, dato che non comporta alcuna dispersione patrimoniale bensì al contrario determina l’apprensione di beni (ed anche delle relative passività).

Alla responsabilità risarcitoria verso i creditori sociali gravante sulla società prevista dall’art. 116, comma 3 si affianca quella degli amministratori e dell’organo di controllo ex art. 2394 e art. 2476, comma 6 c.c. (di nuova formulazione) in caso di inosservanza degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale; fattispecie, questa, che può consistere anche nell’attuazione di un’operazione straordinaria, poi rivelatasi pregiudizievole, in violazione delle disposizioni di legge a tutela dei creditori (ad esempio in pendenza di opposizioni).

Tuttavia mentre è oramai incontroverso che l’azione dei creditori è diretta anziché surrogatoria, poiché ne beneficia il creditore che la intraprende anziché la società (da ultimo Trib. Roma 7 aprile 2015), maggioritaria ma non unanime in giurisprudenza è l’opinione che si tratti di un’azione esercitabile anche in caso di società in concordato preventivo (così Trib. Ravenna 27 ottobre 2015; Trib. Bolzano 30 aprile 2015; Trib. Piacenza 12 febbraio 2015). Consta infatti un controverso provvedimento recente secondo il quale l’effetto esdebitatorio del concordato si estenderebbe anche agli amministratori, in quanto soggetti non ricompresi tra quelli nei cui confronti, ai sensi dell’art. 184, comma 2, l.fall., il creditore mantiene impregiudicati i propri diritti (App. Bologna 5 giugno 2017); argomentazione non condivisibile, questa, poiché il patrimonio dell’amministratore di società in concordato non è interessato da alcuna esdebitazione, e che conduce alla incongrua conseguenza per cui finiscono per giovarsi del concordato proprio gli amministratori che, con la loro mala gestio, hanno determinato la crisi o insolvenza.

Alla responsabilità civile degli amministratori si aggiunge anche quella penale ex art. 2629 c.c., specificamente dettata per le fusioni e scissioni effettuate in pregiudizio dei creditori; si tratta di un reato proprio, ma è possibile che concorra in esso l’organo di controllo quale extraneus ai sensi dell’art. 110 c.p.

 

Operazioni straordinarie e recesso

La legge delega n. 155/2017 prevedeva all’art. 6, comma 2, lett. c), n. 3 che “non spetti ai soci il diritto di recesso in conseguenza di operazioni incidenti sull’organizzazione o sulla struttura finanziaria della società”; diritto di recesso previsto in ipotesi di operazioni straordinarie dagli artt. 2473 e 2437 c.c., sebbene limitatamente, nel caso di società per azioni, alle sole fusioni e scissioni che determinino un cambiamento significativo dell’attività della società.

La disposizione della legge delega intendeva impedire l’insorgere di debiti addizionali verso i soci determinati dal recesso esercitato in corso di procedura o nella sua fase esecutiva.

L’articolato non ha però recepito le indicazioni della legge delega; peraltro la soluzione da essa indicata, cioè impedire il recesso, pare sproporzionata in quanto rende il socio “prigioniero del titolo” come già accadeva prima della riforma del diritto societario del 2004 quando le ipotesi di recesso erano estremamente limitate.

Si consideri infatti che quello del rimborso è soltanto il rimedio di ultima istanza per liquidare il socio uscente, in quanto a ben vedere la legge stabilisce che preliminarmente le sue partecipazioni debbano essere offerte in opzione agli altri soci e, per la parte non acquistata, collocate presso terzi, e nessuna di queste due procedure determina un debito della società verso il socio.

Più appropriato parrebbe consentire al socio di recedere, postergando l’eventuale rimborso di riserve o di capitale rispetto alla soddisfazione degli altri creditori. Ciò salvaguarderebbe l’equilibrio patrimoniale e finanziario della società senza limitare indebitamente la libertà dei soci di recedere.

Osservo incidentalmente che lo stesso trattamento dovrebbe essere esteso a tutti i casi di exit nel corso della procedura di concordato e durante la successiva fase esecutiva, ivi compresi il recesso per qualunque causa legale o statutaria, l’esclusione da società a responsabilità limitata, il riscatto di azioni, l’acquisto di azioni proprie, la riduzione volontaria del capitale sociale etc.

Infatti i soci sono strutturalmente postergati (li definisce residual claimants il Trib. Milano, 28 febbraio 2017), in quanto nel conferire capitale hanno accettato il rischio di impresa e dunque nulla possono vantare se non una mera aspettativa di rimborso del patrimonio dopo il soddisfacimento dei creditori.

Peraltro il silenzio del legislatore delegato sulla materia non impedisce una interpretazione volta ad attribuire natura postergata al credito da recesso o da altre fattispecie ad esso assimilabili, escludendo quindi tanto il suo carattere prededucibile quanto quello chirografario, così da disconoscere un ingiustificato vantaggio al socio receduto. A tanto si può arrivare anche attribuendo portata (ulteriormente) espansiva all’art. 2467, comma 1, c.c., dato che il trattamento penalizzante da esso riservato al rimborso dei finanziamenti soci deve valere a maggior ragione per il rimborso dei crediti sorti per effetto di precedenti conferimenti, essendo irrilevante la contestuale fuoriuscita del socio dalla compagine sociale “pena l’inutilità dell’istituto, che si presterebbe a facili elusioni in danno di creditori e terzi” (decisione del Trib. Milano 6 febbraio 2015 in tema di postergazione del finanziamento del socio poi cessato).

 

Fusioni e scissioni realmente negative

La legittimità della scissione negativa è questione molto dibattuta in dottrina e nella prassi notarile; meno dibattuta è quella della fusione negativa.

Si tratta di casi molto probabili a verificarsi quando le operazioni straordinarie siano attuate in corso della procedura di concordato preventivo, dato che le società coinvolte spesso giacciono in situazione di perdita rilevante del capitale, prima ancora che l’operazione straordinaria sia effettuata. Invece, una volta intervenuta l’omologazione e ricapitalizzata la società, il tema non dovrebbe proporsi (se non si sono fatti male i conti).

Per scissione “realmente” negativa si intende ordinariamente una scissione con la quale viene assegnato ad una beneficiaria un patrimonio reale (cioè effettivo, non soltanto contabile) negativo; in realtà, quando si tratti di società in concordato, è probabile che ad essere negativi siano i patrimoni sia della scissa che delle beneficiarie, sia prima che dopo l’assegnazione del patrimonio.

Per fusione realmente negativa si intende la fusione alla quale partecipino società aventi tutte il patrimonio effettivo negativo.

Un’interpretazione restrittiva che precludesse l’attuazione, in corso di procedura, di fusioni e scissioni negative penalizzerebbe immotivatamente tali strumenti di risoluzione della crisi d’impresa, anche considerato che i deficit patrimoniali che affliggono le società partecipanti sono destinati ad essere fisiologicamente riassorbiti in sede di omologazione, per effetto della falcidia concordataria e/o di un aumento di capitale eventualmente liberato con la conversione di crediti in capitale o in strumenti partecipativi.

Occorre al proposito innanzitutto osservare che, in linea di principio, l’imprenditore è libero di modulare a proprio piacimento l’attribuzione patrimoniale alle beneficiarie della scissione: infatti, come ha correttamente posto in evidenza la Cassazione penale, “non esiste alcuna norma del diritto societario che impone all’imprenditore, quando effettua una scissione, di attribuire alla società scorporata, ovvero alla nuova società appositamente costituita, un’eguale proporzione di attività e passività” (Cass. Pen., Sez. IV, 4 marzo 2013, n. 10201).

Tuttavia la Cassazione civile ha censurato la scissione quando comporti l’attribuzione alla beneficiaria di un patrimonio reale negativo, a prescindere dalla circostanza che quello della assegnataria sia positivo o meno, argomentando che, in tal caso, non potrebbe sussistere alcun rapporto di cambio e, anche laddove non fosse necessario determinarlo, l’operazione si configurerebbe priva di utilità per la beneficiaria (Cass. 20 novembre 2013, n. 26043).

Oltre alla citata giurisprudenza, si sono registrate posizioni restrittive che negano la possibilità di attuare scissioni realmente negative anche all’interno del notariato (Consiglio Notarile di Milano, massima n. 72 e Comitato Triveneto dei notai, L.E.1) e da parte dell’OIC (principio contabile OIC 4, par. 4.3.3).

Altra autorevole dottrina ritiene invece che si possa attuare una scissione negativa a condizione che la beneficiaria presenti un patrimonio netto positivo in grado di fronteggiare l’apporto negativo, impedendo che esso provochi una perdita di entità superiore ai limiti che comporterebbero l’adozione dei provvedimenti di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c. (A. Busani – C. Montinari, La scissione con apporto di valore patrimoniale negativo alla società beneficiaria, in Società, 6/2011).

Più concessivo ancora è l’orientamento espresso dal Consiglio Notarile di Roma (massima n. 2, luglio 2016), che è giunto a riconoscere la validità della scissione con patrimonio reale e contabile negativo a prescindere dalle consistenze patrimoniali, a condizione che:

  • non si debba procedere a concambio, e
  • la beneficiaria preesistente sia in liquidazione prima dell’apporto e resti in tale stato dopo di esso.

I due punti illustrati meritano un approfondimento analitico.

Quanto alla lett. a), la dottrina e la prassi notarile hanno messo in luce i casi, frequenti nella pratica, in cui non è necessario procedere ad un concambio, così rimuovendo un ostacolo alla scissione negativa; è il caso della scissione effettuata in favore di società beneficiaria preesistente che possiede interamente la scissa (art. 2506 ter, comma 5) oppure che ne è interamente posseduta oppure ancora quando scissa e beneficiaria siano partecipate dagli stessi soggetti, secondo le medesime percentuali ed i medesimi diritti.

Parimenti sono stati identificato casi in cui non è possibile procedere a concambio. Ciò avviene quando la società beneficiaria sia titolare di una partecipazione non totalitaria nella scissa, non potendo la beneficiaria assegnare in concambio a sé stessa le partecipazioni in sostituzione di quelle già possedute nella scissa, poiché ciò comporterebbe l’annacquamento del capitale (divieto posto dall’art. 2504 ter richiamato dall’art. 2506 ter c.c.; per una migliore comprensione di questa complessa fattispecie si veda A. Busani – C. Montinari, La scissione con apporto di valore patrimoniale negativo alla società beneficiaria, in Società, 6/2011); in tal caso alla scissione, che di fatto comporta una restituzione dei conferimenti ai soci, può darsi ugualmente luogo, pur senza assegnare azioni in concambio (Comitato Triveneto dei notai, L.E.4).

Così pure negli altri casi precedentemente illustrati non si procede a concambio, ed è così realizzata l’ipotesi di cui alla lett. a).

Nelle diverse ipotesi in cui il concambio debba essere riconosciuto, occorre osservare che, in caso di società in concordato, l’esistenza di patrimoni negativi non ne preclude affatto la determinazione su basi razionali, ove si consideri che tali patrimoni sono destinati a diventare positivi in conseguenza dell’omologazione.

Vi è peraltro motivo di ritenere che quando vi sia l’accordo unanime dei soci sulla misura del concambio, l’esistenza di quest’ultimo non sia preclusivo di una scissione negativa. Infatti il concambio non ha lo scopo di tutelare interessi indisponibili dei creditori o di terzi, bensì soltanto gli interessi dei soci, assicurando a ciascuno di essi nel complesso una nuova partecipazione societaria di valore proporzionalmente corrispondente a quella che aveva in precedenza; tanto è confermato dalla modifica apportata dal D.Lgs. n. 147/2009 all’art. 2501 sexies, richiamato dall’art. 2506 ter, comma 3, c.c., che espressamente consente la rinunzia unanime dei soci di ciascuna società coinvolta nell’operazione alla relazione degli esperti sulla congruità del rapporto di cambio; rinunzia che non sarebbe possibile se la determinazione del concambio pregiudicasse i diritti dei terzi.

Nulla vieta dunque che i soci si accordino sulla determinazione di un rapporto di cambio sulla base dei valori economico patrimoniali attesi, certamente positivi, che si determineranno per effetto dell’omologazione, e non invece sulla base dei valori correnti negativi, dovendosi escludere soltanto il ricorso a metodi affetti da “vistose deficienze” (Trib. Milano 25 settembre 2015); ed è altresì plausibile che nella determinazione del concambio incidano fattori diversi dalla pura comparazione di valori economico patrimoniali, a seguito di “negoziazioni” tra le parti, pur occorrendo che tali fattori siano esplicitati, così da garantire un eventuale sindacato giurisdizionale, e che non assumano un peso prevalente (Trib. Prato 4 maggio 2011).

Pertanto quando il valore di concambio trovi l’unanime condivisione dei soci espressa in assemblea viene meno il motivo per escludere la scissione negativa.

Quanto alla lett. b), cioè alla circostanza che lo status di liquidazione consentirebbe il perfezionamento di operazioni straordinarie in presenza di patrimoni negativi, si osserva che anche il Consiglio Nazionale del Notariato ha avallato lo stesso orientamento, ritenendo che le ragioni che impongono di limitare l’ammissibilità di scissioni negative al solo caso in cui almeno una delle società coinvolte abbia un patrimonio tale da assorbire le perdite delle altre non valgono qualora le società partecipanti all’operazione di scissione si trovino tutte in stato di liquidazione (in realtà il parere riguarda un caso di fusione, ma si fa anche cenno alla scissione; Quesito n. 386-2014/I, pubblicato in CNN Notizie del 27 agosto 2014).

Ciò in quanto, per espressa previsione normativa, la scissione, così come la fusione, è compatibile con lo stato di liquidazione (salvo che sia già iniziata la distribuzione dell’attivo, anche se vi è motivo di ritenere che tale condizione non si applichi alle società in concordato), il quale è generalmente determinato dalla perdita del capitale ex art. 2484, n. 4, c.c. È dunque compatibile, la scissione, con una situazione in cui il patrimonio della scissa e/o della beneficiaria sia inferiore al minimo prima e/o dopo la scissione.

Quando scissa e beneficiaria preesistente siano in concordato, non è neppure necessario rispettare il requisito formale della messa in liquidazione, poiché in tale caso le società, ai sensi dell’art. 89, sono egualmente svincolate dagli obblighi di ricapitalizzazione o scioglimento.

Nel caso invece in cui una delle società sia in bonis e il suo patrimonio netto diventi negativo in conseguenza dello scorporo/assegnazione non proporzionale di attività e passività, essa dovrà essere posta in liquidazione, non potendo godere dei benefici di cui all’art. 89.

Milita a favore della scissione negativa anche la circostanza che quando il codice civile evoca il valore effettivo del patrimonio netto ricevuto al fine di delineare responsabilità ed obblighi informativi delle società coinvolte (si vedano gli artt. 2506 bis, comma 3, 2506 quater, comma 3 e 2506 ter, comma 2, c.c.), non indica che esso debba essere positivo, anche se il punto non è pacifico (si veda C. Bauco – N. Lucido – G. Trinchese, La scissione negativa: ammissibilità civilistica e riflessi contabili, Fondazione Nazionale dei commercialisti, 2018, nonché C. B. Vanetti, Operazioni straordinarie nelle crisi d’impresa: sono possibili scissioni e conferimenti negativi?, in ilcaso.it, 2018); d’altronde quand’anche un tale precetto fosse desumibile dalla disciplina codicistica della scissione, esso potrebbe esser disattivato ex art. 116, comma 4.

È stato fin qui analizzato il caso di scissione a favore di beneficiaria preesistente; quando invece la beneficiaria venga costituita ex novo per effetto della scissione, autorevole dottrina ritiene che non le possa essere attribuito un patrimonio negativo (A. Busani – F. Urbani, Operazioni straordinarie: la scissione, in Società, 12/2017).

Vi è da chiedersi se tale orientamento, che la dottrina riferisce al caso di società in bonis, sia meritevole di essere salvaguardato quando la dante causa si trovi in concordato; infatti la beneficiaria di nuova costituzione erediterà il fascio di obbligazioni concordatarie indicate nel progetto, divenendo anch’essa una “società in concordato” (sebbene la circostanza non potrà risultare dalla visura camerale, trattandosi di società di nuova costituzione); dunque sarà soggetta alla disciplina prevista in caso di crisi ed insolvenza, che offre già adeguata tutela ai creditori, tanto da rendere superflua se non addirittura di ostacolo al risanamento la tutela offerta dal capitale; non si spiegherebbe altrimenti perché il legislatore abbia esonerato la debitrice in concordato dagli obblighi di ricapitalizzazione e di scioglimento ex art. 89.

Ed allora si potrebbe ritenere legittima l’assegnazione ad una beneficiaria di nuova costituzione di un patrimonio netto negativo, purché l’omologazione sia successivamente atta a ripristinare l’integrità del capitale e ciò possa essere ragionevolmente documentato; l’interpretazione non dovrebbe sorprendere, avendo già riscontrato che effettività e integrità del capitale sociale sono oramai sotto assedio su numerosi altri fronti.

In tali casi verosimilmente la beneficiaria dovrebbe assumere il capitale nella misura minima prevista per il tipo societario prescelto, e qualora alla prima chiusura dell’esercizio l’effetto esdebitativo non si fosse ancora realizzato, nel relativo bilancio dovrebbe esporre una riserva negativa alla voce dello stato patrimoniale A.VIII – Perdite portate a nuovo.

Si tratta di una tesi piuttosto avanzata, che potrebbe incontrare l’opposizione del tribunale concorsuale in sede di ammissione o, successivamente, il rifiuto di ricevere l’atto da parte del notaio, ferma restando in quest’ultimo caso la possibilità di ricorrere all’omologazione giudiziale dell’atto societario ex artt. 2330 e 2436 c.c., anche per sollecitare un pronunciamento del giudice del registro di sicuro interesse, il cui esito non è tuttavia scontato.

È dunque opportuno che la proposta concordataria, la quale contenga una ipotesi di scissione in pendenza di procedura con costituzione di una nuova beneficiaria avente patrimonio netto negativo, preveda in via subordinata di rinunciarvi (come avvenuto nel caso di omologazione trattato da Trib. Ravenna 29 ottobre 2015) o di posticiparla a dopo l’omologazione concorsuale.

Fin qui il caso della scissione; nel caso della fusione di società in concordato preventivo, considerazioni non dissimili militano a favore della possibilità di darvi corso quand’anche la società incorporante o risultante dalla fusione assuma un patrimonio netto contabile e reale negativo, e quand’anche tale negatività sia preesistente non soltanto in una ma anche in tutte le società partecipanti all’operazione.

Consta in questo caso il parere esplicitamente favorevole del Consiglio Nazionale del Notariato (Quesito n. 386-2014/I pubblicato in CNN Notizie del 27 agosto 2014), per il quale “la circostanza per cui entrambe le società siano in stato di liquidazione sembra rendere irrilevante il fatto che i patrimoni di entrambe le società abbiano un valore negativo” in quanto “in fase di liquidazione è stato osservato come la società non sia neppure obbligata […] ad osservare il disposto degli artt. 2446 e 2447 c.c..”.

Le considerazioni svolte dal CNN presuppongono lo status di liquidazione ma, come detto precedentemente, valgono analogamente in caso di concordato preventivo, considerato l’esonero dall’obbligo di ricapitalizzazione ai sensi dell’art. 89.

Il parere del CNN prende le mosse da un quesito concernente una fusione per incorporazione; tuttavia il principio di irrilevanza dei patrimoni negativi in esso formulato – per come è espresso testualmente e per le argomentazioni fornite – assume una valenza generale, e quindi può essere esteso alla fusione propria che dia luogo ad una società di nuova costituzione.

D’altronde, che si opti per una fusione per incorporazione oppure per una fusione propria, la consistenza patrimoniale della società risultante rimane identica.

Anche in questo caso, data l’incertezza sulla disciplina giuridica della fattispecie e pur in presenza di un orientamento così autorevole, è opportuno che la proposta concordataria preveda in via subordinata di rinunciare all’operazione straordinaria o di posticiparla in epoca successiva all’omologazione della procedura concorsuale.